Playtime di Jacques Tati. E’ un film del 1967 che più di ogni altro è dotato della capacità di suscitare una determinata sensazione spiacevole nello spettatore: quella che non tutto ciò che è passato sullo schermo nelle due ore del film è stato interamente visto. C’è sempre qualcosa che sfugge alla visione di Playtime. E c’è sempre qualcos’altro che sfugge ad una ri-visione, e così via. Chi ha studiato la storia del cinema sa che i primi film dei Lumière – le famose “vues Lumière” – erano costruiti attorno a questo principio: veniva mostrato in 50 secondi circa uno scorcio di una città moderna in piena fregola orgiastica costituita da un viavai continuo di persone, mezzi, cose, animali: la belle époque semovente. In questo scorcio era impossibile seguire tutti i movimenti e avere la sensazione di “possedere” tutto il quadro. Playtime usa lo stesso principio dei padri del cinema. Playtime è il regno dei paradossi: una città moderna costruita a tavolino e allo stesso tempo “naturale” come nient’altro può far apparire su schermo; un’organizzazione geometrica della città e un moto browniano delle persone al suo interno (una città passata al microscopio: da qui lo scopo scientifico del lavoro di Tati); la sensazione di non poter percepire tutto e la comicità basata sul totale che viene, nonostante tutto, percepita; l’apoteosi della burocrazia razionale e del linguaggio e la crisi del linguaggio che si trasforma in barbagli, suoni e rumori sgradevoli. Playtime è tutto e il contrario di tutto: Playtime è l’apogeo della modernità e la critica più radicale ad essa. Playtime è la struttura de-strutturata, è l’analisi scientifica portata avanti dal flaneur e non dal ricercatore. Playtime è apparentemente leggero ma ideologicamente pesante. Playtime è cinema puro, la sintesi dell’essenza cinematografica. Playtime è il mio film preferito: si era capito?