L'altra sera, alle 9, io e G. crolliamo finalmente sulla panchina; guardo il morso sul suo braccio e rido ed anche lui ride. Sarebbe bello, gli dico, riuscire a scrivere di tutto questo. Scrivere storie e non relazioni. Raccontare di come lentamente le storie degli altri ti si insinuano dentro e prendono le sembianze di un modo di dire o della maniera automatica con cui riempi i piatti, qui niente riso qui niente insalata qui doppi pomodori, e c'è qualcosa che mi commuove nella mancanza di pomposità di questi gesti. E' un posto questo in cui la parola empatia è proibita perchè appare in tutta la sua ipocrisia, oltre che inadeguatezza.
Dovresti riuscire a raccontare elencando le cose che trovi nel cassetto di Ivano o nell'armadio di Nadia, dovresti essere bravissimo a descrivere i passi di M. sulle scale, ma anche quelli degli altri e di come riusciamo da essi a capire chi sta camminando nel corridoio di sopra e di dove, nella sua testa, sta andando.
E' un mondo diverso, è vero, ma non nella maniera in cui si immaginano gli altri. E' come se pulsasse al ritmo di un suono ancestrale e di figure potenti ma fossero visibili solo nel movimento ipnotico della lavatrice.
Ci sono cose che puoi fare e nessuna, nessuna cosa che puoi dire.